Primi passi
Hai deciso di passare a Linux ma non sai da che parte cominciare?
di Michele Mezza (pubblicato su limes 02/2017)
La rivoluzione informatica ha sottratto la potenza di calcolo all’alveo della sovranità nazionale. Dopo lustri di primato della Silicon Valley, lo Stato passa al contrattacco. A Taormina la prima resa dei conti. Se Zuckerberg diventa presidente.
Se non fosse così, il termine «algoritmo» non avrebbe avuto lo spazio che gli è stato riservato negli ultimi due vertici di Davos, dove le uniche sessioni riservate sono state quelle dedicate appunto alla cartografa dei possibili confitti digitali. Nel G20 tenutosi lo scorso settembre a Hangzhou (Cina), l’ultimo con Obama presidente, non sarebbe stato il tema sul quale i leader di Stati Uniti, Cina e Russia si sono guardati in cagnesco. Ma soprattutto, non sarebbe il perno del G7 in programma a fine maggio in quel di Taormina, dove per la prima volta i più grandi gruppi tecnologici del mondo potrebbero entrare in scena come interlocutori equiparati agli Stati.
Questa è la carota che Trump sta facendo intravedere alla Silicon Valley: diventare partner ufficiale della re-industrializzazione dell’America. Ma lo scenario è ancora confuso. A essere preoccupati sono in primo luogo i leader delle maggiori potenze, determinati a scongiurare la profezia di Charles Kupchan che nel 2012, nel suo No One’s World, prevedeva che «il XXI secolo non apparterrà all’America, alla Cina, all’Asia o ad altri: sarà un secolo di nessuno. Per la prima volta nella storia, il mondo sarà interdipendente, ma privo di un centro di gravità, di un custode globale».
Il custode in realtà c’è: il calcolo. Ora si tratterà di capire chi sarà il custode del custode, perché come dice Nicholas Carr, «in un sistema automatizzato il potere si concentra nelle mani di chi controlla la programmazione degli automatismi».
La Rete, dice il biotecnologo Craig Venter, non serve a giocare con i social, ma a riprogrammare la vita umana. La battuta mette in una luce diversa i confitti che si stanno creando attorno alla potenza di calcolo. Il principio che presiede alla digitalizzazione della nostra vita è oggi l’automazione della soluzione di problemi e di circostanze psico-cognitive. La nostra mente e il nostro cervello sono il ring su cui si combatte per governare, attraverso la digitalizzazione delle informazioni, i comportamenti umani.
Strumento e contenuto di questo processo è l’algoritmo. Qualcosa che risale alla notte dei tempi, forza motrice dell’uomo già nel Proteo di Eschilo e che Pitagora razionalizza come il modo di calcolare il futuro. È questo il problema che il potere ha posto ai matematici: come prevedere e indirizzare il corso delle cose attraverso i numeri. Siamo qualche decennio dopo Galileo (che già ci spiegava che il libro della vita era scritto con il linguaggio della matematica), quando prima con Newton e poi con Joseph Raphson l’algoritmo da effettivo diventa efficiente, diviene cioè un processo organizzativo e produttivo dell’attività umana, la cui elaborazione è fonte di potere in quanto mezzo di soluzione dei problemi.
L’espressione (A+H)2 – l’incremento o la diminuzione del lato indica l’incremento o la diminuzione del quadrato – rivela il primo automatismo di calcolo che permette di stabilire delle sequenze certe, degli effetti matematici sicuri nei processi decisionali. Entriamo così nel campo dell’informatica di precisione. Saltiamo agli anni Trenta del XX secolo, quando – sulla scia di quello straordinario periodo nella seconda metà dell’Ottocento in cui i matematici si affrancarono agli ingegneri nel programmare la potenza nella società industriale – nacque la società del calcolo.
Tra le due guerre mondiali, sulla spinta di un taylorismo ormai esasperato che pretendeva di calcolare ogni minimo gesto individuale e ogni comportamento di massa finalizzato alla produzione, le società del calcolo dei vari paesi occidentali cominciano a tessere una tela a maglie sempre più strette, il cui obiettivo era definire (calcolare) la prevedibilità di fenomeni e valori sociali. Come descrive Paolo Zellini nel suo denso e documentatissimo saggio ‘La matematica degli dei e gli algoritmi degli uomini’, negli anni Trenta, in seguito alla progettazione dei primi calcolatori digitali, prende forma l’indirizzo della scienza matematica orientato esclusivamente a risolvere i problemi sociali mediante la fisica e l’economia.
La guerra non interrompe questa evoluzione, anzi l’accelera, trasformando il confitto bellico in sfida computazionale, anche grazie al progetto Enigma di Alan Turing e Claude Shannon. È lì, prima che sui campi di battaglia, che i tedeschi vengono battuti: nella capacità di elaborare una strategia complessiva della potenza di calcolo, in cui la fissione nucleare da una parte e la decrittazione dei linguaggi cifrati dall’altra sono vettori e obiettivi intermedi di un più ampio sforzo di riorganizzazione sociale.
Nel suo saggio «As We May Think», pubblicato su Atlantic Review nel luglio del 1945 (qualche giorno prima di Hiroshima), Vannevar Bush annuncia la nuova stagione del decentramento della potenza di calcolo, spiegando al dipartimento di Stato americano (che lo aveva interpellato in proposito) che l’Unione Sovietica poteva essere fronteggiata solo trasformando la base sociale, motore dell’economia, da manifatturiera in cognitiva. L’Urss sarebbe stata battuta se fosse stato disperso il suo esercito globale: il protagonismo sociale dei lavoratori industriali.
Il becchino chiamato al suo capezzale direttamente dal capitale fordista, come aveva preconizzato Marx. Gli algoritmi cominciavano a lavorare in maniera efficiente per risolvere il primo grande problema: come neutralizzare la funzione negoziale e antagonistica del lavoro nella produzione industriale. In questa fase, gli Stati sono ancora i motori primi dei processi innovativi. Lo attesta la stessa Silicon Valley, dove dopo il famoso discorso di Kennedy del 25 maggio 1961, in cui si lanciava la sfida ai sovietici per la conquista della Luna, si è concentrata una straordinaria massa di investimenti statali finalizzati alla supremazia tecnologica.
Tuttavia, sul finire degli anni Sessanta succede qualcosa. Nel 1969 Internet prende vita con soli quattro nodi; in poco tempo avvolge l’intero pianeta. È in questo passaggio che si scinde il sodalizio fra Stato e calcolo: la potenza computazionale, fin lì di esclusiva competenza dei governi, diventa una pratica sociale in mano a singoli e imprese. L’algoritmo diventa quello che Dominique Cardon definisce «indicatore per guidare i comportamenti». È la grande stagione del rinascimento digitale, delle start-up, dei garage in California dove ragazzi ambiziosi, laboriosi e a loro modo geniali riprogrammano la vita.
Da oltre dieci anni abbiamo consegnato ogni pulsione del sistema finanziario mondiale ai bots che trattano, alla velocità di tre decimillesimi di secondo, il 75% del traffico titoli su tutte le piazze mondiali. Lo high frequency trading è il baluardo dell’automatizzazione a opera di un algoritmo; nonché il motivo per cui oggi anche i maggiori dirigenti di banca o di fondi d’investimento prima di incontrare i consigli d’amministrazione consultano i loro consulenti di calcolo.
Ma l’esempio forse più emblematico della potenza indiscriminata dell’algoritmo è la musica, che già Leibniz ci diceva essere una pratica occulta dell’aritmetica in cui «l’anima non sa di calcolare». Spotify, un’applicazione svedese che gestisce la dieta musicale di decine di milioni di giovani e meno giovani proponendo compilation aderenti ai profili dei singoli utenti, *si sta spingendo oltre. La profilazione punta a calcolare i gusti e dunque le scelte future di ogni soggetto, in modo da poterle anticipare e orientare. L’algoritmo di Spotify, insomma, precede di vari passi la nostra crescita e maturazione, per far sì che il nostro identikit coincida… con noi stessi. *
Su questa base, Spotify può ora pianificare la produzione di quelle melodie, di quei ritmi che ha previsto essere l’elemento innovativo in grado di modificare il nostro piacere all’ascolto. Immaginiamo che al posto di Spotify non ci sia un operatore musicale il cui obiettivo è farsi disk jockey planetario, bensì un partito, un progetto politico, un candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Cosa potrebbe avvenire? Forse che un eccentrico miliardario, seducente ma screditato, entri alla Casa Bianca? O che un intraprendente speculatore possa istruire bots intelligenti per organizzare una distribuzione di titoli e azioni porta a porta a livello globale?
Immaginiamo poi che lo stesso algoritmo, magari gestito dal proprietario del principale social network del pianeta, possa esibirsi su una base elettorale di 2,5 miliardi di utenti, come saranno fra quattro anni quelli di Facebook. I dati che stanno affiorando, dopo l’ubriacatura sull’orgia di notizie false (fake news), ci dicono infatti che se le elezioni americane sono state alterate (e comunque sono state sicuramente oggetto della pressione in Rete di squadre al soldo di Trump, in America e altrove), lo sono state da un attivismo frenetico di agenti intelligenti, di bots.
Si stima che circa 150 cervelli artificiali abbiano pompato in rete 78 milioni di messaggi circolari, tali da precostituire grafo a imbuto, cioè fenomeni reticolari che sulla base di parole chiave attraggono gruppi e individui apparentemente inclini a quei contenuti. In sostanza, Trump ha dato a ogni tribù sociale selezionata ciò che voleva sentirsi dire da un candidato. Dal Minnesota alla Macedonia, botteghe digitali hanno lavorato per produrre questo bombardamento sulla scorta di un database che il miliardario si era comprato due anni fa.
La domanda a questo punto è: vi pare plausibile che forze tecnologiche del tutto imprevedibili possano alterare un’elezione? E soprattutto: chi ha utilizzato queste forze con profitto può pensare di restituire il bastone di comando ai tecnici e limitarsi a godere della sua momentanea vittoria? Cosa potrebbe accadere alle prossime elezioni in Francia o in Germania? O fra quattro anni in America, magari in uno scontro all’ultimo bit fra Trump e Zuckerberg?
Altro che confitto d’interesse. Siamo alla riproduzione in laboratorio della merce sociale più pregiata: il consenso. Questo oggi è il vero tema: la riservatezza e la separatezza delle attività algoritmiche che attraversano la nostra vita. Nessun potere prescrittivo e predittivo – pensiamo alla scienza medica o alle tecniche formative – è mai stato appannaggio di un numero così ristretto di individui che operano su una massa così sterminata di utenti.
In linea con le tradizioni politiche delle democrazie occidentali, ci pare lecito chiedere che anche l’algoritmo, come il potere di formazione, di guarigione, di informazione, siano sottoposti al vincolo della trasparenza e del controllo pubblico. L’algoritmo è a tutti gli effetti uno spazio pubblico, per la sua capacità di incidere sull’umanità. Esattamente per lo stesso motivo, Mark Zuckerberg afferma che Facebook è ormai uno spazio pubblico, ma si dimentica di aggiungere che ciò gli impone obblighi di trasparenza e osservanza legislativa presso le comunità in cui opera, e che lui non rispetta.
Il pensiero computazionale, a prescindere dagli statuti proprietari, non può sottrarsi al ruolo di bene comune. Esattamente come l’acqua. Su questo insiste da tempo un altro grande attore globale: papa Francesco. Nella sua enciclica Laudato sii sulla cura della casa comune, il pontefice è tornato in maniera martellante sul tema della condivisione delle potenze di calcolo che stanno assumendo, spiega, preoccupanti caratteri prescrittivi: «Occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere».
Ovviamente Francesco ha l’occhio sulle acrobazie genetiche, e soprattutto sul decentramento di pratiche potenzialmente eugenetiche come il Crispr (Clustered regularly interspaced short palindromic repeats, brevi ripetizioni palindrome raggruppate e separate a intervalli regolari), che estende enormemente la gamma dei soggetti ormai in grado di praticarle. Come diceva appunto Venter, la potenza di calcolo serve a riprogrammare la vita umana.
Nel primo scorcio del nuovo secolo la partita sembrava vinta a tavolino dai protagonisti della rivoluzione digitale. Oggi si assiste al contrattacco dello Stato, anche per un certo affievolirsi della progressione innovativa, frenata dalle rendite dei gruppi monopolistici che ormai dominano la Rete e non spingono più come prima. Proprio l’imprevedibile vincitore delle presidenziali americane si trova oggi a fare da testimonial alla revanche dello Stato sul mercato digitale. Non a caso Trump ha scelto di suggellare la sua incoronazione, più che con la sbrigativa ed essenziale cerimonia del 20 gennaio, incontrando un mese prima i vertici della Silicon Valley nella sua torre newyorchese.
In quell’occasione il miliardario reazionario si è presentato come un sorprendente Keynes del software. Al cospetto del for fore dell’instrumentum regni digitale, egli mostra di voler rispondere alla domanda:«Ma in fin dei conti, chi comanda oggi?». E la risposta è: «Io». Una risposta analoga a quella del premier russo o di quello cinese, che mirano a rimettere la politica – cioè se stessi – al centro della scena.
Si configura in questo passaggio l’idea della potenza di calcolo come elemento della sovranità nazionale. Parafrasando Carl Schmitt: un algoritmo-nazione, in cui l’agente della globalizzazione – il sapere digitale che promuove relazioni molecolari, sbriciolando barriere e confini – viene subordinato agli interessi e alle volontà dello Stato. L’idea serpeggiava già da qualche tempo nei forum in Rete, dove si cercavano sponde per contenere lo strapotere dei giganti digitali, i grandi monopolisti del Web.
La singolarità del trumpismo, che spiazza anche a sinistra, è che la svolta nazionalista affiori proprio dalle viscere del paese che sta dominando il mercato digitale. Il campione del mercato aperto prende atto che l’accelerazione sovranista dei suoi contendenti asiatici lo spinge ad acquartierarsi in un sistema dov’è lo Stato a condurre le danze. Come scrive il sociologo coreano (naturalizzato tedesco) Byung-Chul Han nel suo saggio Nello sciame, «l’informazione senza contesto genera solo processo commerciale, non consapevolezza sociale».
Il contesto è la politica, la voglia di ripristinare una gerarchia storica fra i poteri. Di questa missione si è impossessato Trump, che nel corso della campagna elettorale ha saputo leggere i big data meglio di chi li aveva inventati, perché aveva appunto un contesto, una tesi, una strategia, un valore da verificare. Così Trump è riuscito a dare un senso a quel profuvio di dati che la campagna elettorale generava. Mentre i suoi avversari, tra cui i più bei nomi del big data, ne sono rimasti confusi e sorpresi.
Ora il neo-presidente sembra voler dare un’anima non solo elettoralista al suo fronte, tracciando confini e dettando regole per un mondo che invece nasce senza gli uni e le altre. Un’insidia mortale, che ha subito colto il più esposto su entrambi i fronti (confini e regole): Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook. È lui l’unico dei grandi personaggi della Silicon Valley a non essersi presentato alla Trump Tower. Subito dopo l’insediamento di Trump, Zuckerberg ha cominciato a girare come una trottola per gli States: la voce è che prepari una sua candidatura fra quattro anni.
Sarebbe un’ulteriore escalation nella guerra fra poteri: per la prima volta, chi ha strumenti diretti per controllare identità e profli dei suoi elettori si troverebbe a usarli direttamente per il proprio interesse. Persino Trump impallidirebbe. Ma anche Putin e Xi Jinping non si sentirebbero al sicuro.
La squadra di Putin ha lavorato molto sul versante tecnologico, componendo e scomponendo i vecchi kombinat di origine sovietica passati avventurosamente nelle mani di ex funzionari (prevalentemente del Kgb) e poi confluiti, con pressioni di ogni tipo, nelle mani dei fedelissimi del Cremlino. Tuttavia non basta lavorare sui livelli di comando degli apparati, dal Esercito alla macchina delle intelligenze statali. Internet è sempre il risultato di relazioni sociali, prima che di gerarchie industriali e burocratiche. Le università sono state setacciate, selezionando una schiera di makers slavi, giovani e rancorosi, che attribuiscono il loro mancato successo rispetto agli omologhi della Silicon Valley a uno strapotere americano che non ammette intrusioni.
L’apparentemente oscuro dualismo fra algoritmi che prescindono dagli interessi nazionali e una potenza di calcolo che tende sempre più a farsi arruolare dagli Stati, permette oggi di decifrare meglio la scena geopolitica globale, dando ragione di fenomeni e processi che altrimenti appaiono inspiegabili. Qui è possibile trovare una risposta alla domanda: chi sono i padroni del mondo?
Papa Francesco non sembra avere dubbi: a comandare il mondo è «il modo in cui di fatto l’umanità ha assunto la tecnologia e il suo sviluppo insieme a un paradigma omogeneo e unidimensionale» (Laudato sii). Fino a un paio di anni fa, questo paradigma sarebbe stato facilmente individuabile nella visione trionfale degli over the top. Oggi il quadro appare più sfumato.
La resa dei conti fra i due schieramenti computazionali, quello transnazionale e quello dell’algoritmo-nazione, ha una data simbolica. Il 23 maggio 2016 il vertice di Facebook invia una lettera alla commissione sul Commercio del Senato americano, che aveva chiesto ragione di denunce contro quello che veniva definito «l’algoritmo anti conservatore»: un dispositivo editoriale automatico adottato dal social network che avrebbe discriminato, nel fuso dei contenuti, argomenti e autori particolarmente conservatori. Nel testo della lettera, per spiegare l’indiscutibile intromissione si adducono giustificazioni che appaiono francamente deboli, e comunque si ammette che forse «qualche tecnico potrebbe aver superato i limiti del suo mandato».
Rilevante è il passaggio in cui Mark Zuckerberg in persona afferma che «stiamo lavorando insieme per superare il divario che separa quanto oggi un algoritmo possa fare da quanto dovrà fare in futuro». Questa affermazione impone alcuni chiarimenti. Primo: cosa dovranno fare gli algoritmi nel immediato futuro? Secondo: a chi e a cosa prelude quel termine (insieme) evocato dal fondatore di Facebook a giustificazione dei propri sforzi?
Una breve consultazione del listino del Nasdaq, il mercato dei titoli tecnologici della Borsa di New York, ci indica che il comparto dell’innovazione digitale capitalizza oggi la fantastica cifra di 4 mila miliardi di dollari, il 35% dell’intero pil globale. La disponibilità di capitali liquidi del comparto è oggi di 2 mila miliardi di dollari: una massa monetaria che equivale al pil di 80 paesi e che consente di comprare qualsiasi cosa, compreso il consenso delle istituzioni. È ben più di una pistola puntata alla testa dei grandi capi del mondo.
Il motore di questa accumulazione è la musica di Leibniz, in cui l’anima non sa di calcolare. Ma gli over the top lo sanno bene, visto che assommano il 92% del mercato mondiale delle relazioni in Rete e ci forniscono i linguaggi e le modalità per calcolare, dunque per vivere. Al momento Internet rappresenta ancora un simbolo di libertà e questa è stata, fino a oggi, la forza dei suoi monopolisti: costruire il monopolio liberando milioni di persone.
Questa affermazione è avvenuta a scapito dei poteri tradizionali, a cominciare dallo Stato. Anzi, è l’idea stessa di potere a essere impallidita, come scrive Moisés Naím nel suo La fine del potere, in cui documenta la molecolare fragilità dei poteri tradizionali e descrive il protagonismo di nuovi «micro-poteri» che, agendo nei circuiti vitali degli apparati, creano una situazione dove «l’indipendenza del potere dalle dimensioni, e con essa l’indipendenza dell’efficacia del potere dal controllo di una grande burocrazia weberiana, sta cambiando il mondo». Un processo rilevato anche dal ex-segretario generale della Nato Javiér Solana, citato sempre da Naím.
«Negli ultimi venticinque anni – un periodo segnato dalla guerra nei Balcani e in Iraq, dai negoziati con l’Ira, dal confitto israelo-palestinese e da infinite altre crisi – ho visto un gran numero di nuove forze e nuovi fattori ostacolare persino le potenze più ricche e tecnologicamente avanzate. Esse, e con questo intendo dire noi, raramente riuscivano ancora a fare quello che volevano». Di fronte alla valanga di voti a favore del Brexit, l’ex premier britannico David Cameron ha parlato della Rete come di un «impollinatore che trasforma gemiti in movimenti».
Un’alchimia sociale mediante la quale l’algoritmo si fa esso stesso élite. I gemiti di infiniti nani diventano movimenti, dove una moltitudine di individui digitali trova linguaggio e forma per irrompere sulla scena scompaginando il proscenio dei giganti. Questo sommovimento scuote le fondamenta dei poteri verticali da almeno un ventennio. I giganti digitali hanno cavalcato la tempesta senza poterla domare. Ora si misurano direttamente i giganti della politica globale.
Segnali erano venuti già nel 2006 dagli Stati Uniti. Sulla scorta di un’analisi dell’ultima guerra in Libano che ha visto opposti Israele e Õizbullåh, uno dei più lucidi analisti delle Forze armate americane, John Arquilla (diventato poi consigliere di Obama), si chiedeva in un saggio (Insurgents, Raiders and Bandits: How Masters of Irregular Warfare Have Shaped Our World) come mai lo Stato ebraico non avesse stravinto grazie alla netta superiorità delle sue forze.
La risposta (e siamo nel lontano 2006!) è che «Õizbullåh accede a saperi e competenze tramite la Rete. Così la potenza militare viene disintermediata dagli Stati nazionali, (…) il mondo è entrato in un’èra di guerriglia irregolare perpetua (…) guidata dalla forma del network, che costituisce una minaccia per il potere americano. Per battere un network ci vuole un altro network».
In una ricerca commissionata dal team dell’allora candidato Barack Obama, il direttore del Brooking Institute, Peter Warren Singer, scrive: «Siamo in una situazione dove gruppi privati possono disporre di grandi saperi e poteri tecnologici prima riservati agli Stati. Oggi non abbiamo risposte adeguate a questo nuovo tipo di confitto»1. Per certi versi la candidatura di Obama è stata la risposta del sistema americano a questa impasse.
L’ex-presidente prometteva di fare del suo paese un grande network di sapere e cooperazione. La battaglia per la neutralità di Internet lanciata nel primo giorno del suo mandato ne fu il pegno. Ma non ha funzionato. Al prossimo G7 di Taormina si ritroveranno tre grandi paesi che hanno deciso di giocare in proprio la partita della Rete: Stati Uniti, Russia e Cina. In vista di una Jalta tecnologica, gli sherpa delle tre potenze stanno discutendo i termini di un patto per una nuova regolamentazione del Web, sia per limitarne l’interferenza con il governo degli Stati, sia per arginare lo strapotere degli attuali monopolisti.
Google, Facebook, Microsoft, Ibm, la sudcoreana Samsung, la cinese Huawei e la russa Mail.Ru saranno i plenipotenziari del mondo digitale, al quale verrà fatta un’offerta da non rifiutare. Non solo l’algoritmo dovrà rientrare nei beni negoziabili sulla base del pubblico interesse, ma la stessa progettazione della potenza di calcolo non potrà rimanere attività occulta e separata dagli interessi sociali.
Città, università, centri di ricerca e una vasta congerie di imprese innovative possono oggi prosperare solo in una logica di trasparenza dei saperi e di permanente negoziato delle soluzioni. Alan Turing, uno dei padri del pensiero computazionale, ci ricorda che l’innovazione la troviamo sempre e solo lungo quell’incerta via che separa l’iniziativa dalla disubbidienza. Sarà bene che lo ricordino tutti: chi ieri dominava la Rete con gli algoritmi proprietari e chi oggi, in nome di un primato della politica, pensa di poter facilmente rimettere il dentifricio nel tubetto.